La città di Ravenna possiede due volti. Da un lato c’è quello che conoscono tutti, quello delle cartoline, delle gite turistiche, delle grandi opere paleocristiane sulle quali si è direzionato e consolidato l’immaginario della città. Dall’altro vi è un mondo che possiede una storia per certi versi più travagliata e sul quale i canoni estetici rispondono ad un linguaggio che concretizza i timori, le incertezze, le speranze, le fascinazioni dell’uomo contemporaneo.
Si tratta della città post-industriale; un esteso piano orizzontale cosparso di volumi del passato produttivo-imprenditoriale, ora emergenti come caotici landmarks, il cui rumore visivo è quasi mutato dall’arrivo del limite ultimo del Canale Candiano, uno specchio d’acqua silenzioso, che invita alla contemplazione. Un volto che, seppur oggi si presenti come decomposto nella sua presenza fisica, è parte della memoria collettiva della comunità cittadina. È sulla base di questo sentimento di sofferenza per la potenziale perdita di un ambiente, di un paesaggio sul quale le vite si esplicano, che il progetto si è avviato. Vivendo questi luoghi, ci si imbatte in reperti dalle colossali dimensioni e forme iconiche; monumenti veri e propri, totalmente abbandonati, ma dalle incredibili potenzialità spaziali e compositive. Volumi situati all’interno di spazi indefiniti del contesto post-industriale; dei vuoti urbani ove vi è una totale assenza di aree verdi per la collettività. L’esigenza è perciò quella di riattivare l’area, ridefinendola come vero e proprio parco urbano, dove tali preesistenze, nella loro magniloquenza, si pongano alla stregua di elementi scultorei inseriti in una natura che si riappropria dello spazio. Per rispettare la memoria occorre non solo salvaguardare il monumento, ma anche ciò che gli sta attorno. A fronte delle complessità del contesto si configura un segno progettuale dalla longilinea fisicità, pura e semplice.
Così, attraverso questo forte asse, i volumi preesistenti diventano parte di un grande sistema unitario di ricucitura urbana, che si tramuta in un percorso esperienziale di progressivo disvelamento delle memorie tangibili del passato, che ora appaiono meno sfocate. Tra di esse, l’unica che presenta un diretto intervento progettuale è l’ex Sir. Sfruttando i vuoti delle torri laterali del paraboloide, si è concepita una sequenza di belvedere rivolti sia verso il parco che verso l’interno della struttura. La linearità generale del progetto si pone meno rigida alle estremità, attraverso volumi che si contraddistinguono per la libertà formale dai connotati plastici, pur mantenendo forti legami con la sua prosecuzione. Se in un primo momento l’impianto si presenta come un sistema chiuso con funzioni espositive, a partire dal volume con copertura a tronco di piramide si sviluppa un percorso verde aperto, il quale oltrepassa il canale divenendo un vero e proprio ponte-giardino. Quest’ultimo presenta una rottura in corrispondenza della quale si concretizza la connessione con l’acqua. Vivendo questo spazio ci si ritrova in un curioso limbo, dove da un lato vi è l’orizzonte dei campanili e delle cupole, dall’altro quello dei carroponti e delle torri di raffreddamento, due facce di una stessa medaglia in cui l’acqua si pone come unico filo conduttore.