I luoghi idilliaci che hanno reso l’Italia conosciuta in tutto il mondo, dagli anni ’50 subiscono un’incontrollata antropizzazione che causa cicatrici, difficilmente sanabili, all’interno del paesaggio naturale. È il caso delle zone umide di Posada, appartenenti all’ecosistema del Parco della Tepilora, dal 2017 patrimonio dell’UNESCO. Si tratta di un luogo dal grande fascino naturale per il connubio tra fiume e mare, litorale costiero e rilievi montuosi. Uno sguardo zenitale individua in flora e fauna gli unici abitanti di questi luoghi, ma un’osservazione più attenta evidenzia come questi territori così fragili siano stati alle volte intaccati dall’uomo, che ha provocato segni indelebili, incompatibili con la natura circostante.
La grande fragilità delle zone umide è generata dal turismo delle stagioni estive che mette l’utente al centro dell’attenzione trascurando la salvaguardia del luogo, nonostante sia l’elemento attrattore per i fruitori di questi luoghi. Questa condizione è il punto di partenza di una riflessione progettuale che punta a mitigare e salvaguardare l’ambiente da un’artificializzazione incontrollata, non solo nella sua condizione presente, ma soprattutto in quella futura. Il tema della trasformabilità e reversibilità dell’intervento è quindi cardine in questa ricerca in quanto favorisce la rimozione di alcuni elementi progettati non più necessari, e allo stesso tempo asseconda le esigenze degli utenti adattando l’intervento ai possibili futuri cambiamenti climatici e sociali. Nel caso specifico dei luoghi analizzati la strategia è stata quella di allontanarsi dalle aree più fragili, quali le dune del litorale costiero e i corpi idrici, creando una “Seconda Costa”, utile anche a valorizzare le zone umide stesse. Il progetto si focalizza sulla “cicatrice” di Su Tiriarzu. Esso tiene in considerazione le necessità ambientali e di turismo, e guida gli utenti ad una fruizione consapevole. Ciò si concretizza in un polo per il tempo libero e lo sport, attraverso percorsi di avvicinamento lento al litorale che disvelano progressivamente il carattere dell’area, fino ad un’immersione nella natura.
Da ambienti antropizzati quali un punto di approdo e una struttura temporanea didattico-ricettiva che promuove l’attività del kayak, gli elementi del progetto diventano sempre meno riconoscibili architettonicamente, talvolta trasformandosi nel progetto della natura stessa. Si vuole dunque avvicinare i fruitori in sicurezza e dare loro la possibilità di vivere il luogo attraverso un’esperienza immersiva del territorio. L’intervento propone di salvaguardare la vegetazione e il cordone dunale che negli anni passati hanno subito una profonda devastazione nonostante siano gli elementi più decisivi per la preservazione dell’habitat. La soluzione proposta asseconda la vocazione sportiva dell’area, mettendo al centro l’attività del kayak. Ipotizzando però un cambiamento del turismo per cui le attività con vocazione sportiva proposte non dovessero più essere attrattive, si individuano scenari in cui non restino segni indelebili dell’intervento: il progetto può essere infatti smontato in parte (gli edifici, le passerelle o alcuni ambiti di intervento) o anche nella sua totalità, e lasciare che la natura si riappropri spontaneamente dei suoi spazi. Ciò è possibile poiché l’intero intervento è realizzato con un sistema costruttivo in legno, assemblato a secco, su fondazioni a vite, e i materiali a suolo scelti sono di tipo permeabile, infatti, questo consente di ottenere una facile reversibilità e di favorire le capacità resilienti dell’habitat.