Gli stili di vita della popolazione hanno risentito dell’attuale situazione economica. Se si considera, inoltre, la crisi della durata legata all’evoluzione del progresso tecnologico, è evidente che il parco immobiliare esistente è inadeguato e necessita pertanto di adeguamenti agli odierni standard, non soltanto normativi. Il progetto mira perciò a definire, attraverso una proposta per il rione Pilastro a Bologna, una strategia di intervento per tali patrimoni, mediante l’impiego di un’architettura temporanea, prototipo di una nuova idea di urbanità, funzionale non solo alla riqualificazione dell’esistente e applicabile a contesti differenti, a seconda delle esigenze.
Il Pilastro, è nato intorno al 1960 a seguito di un’azione coordinata dell’amministrazione comunale, con alcune cooperative residenziali e lo IACP, per fronteggiare le esigenze abitative sorte da un ingente migrazione sud-nord. La volontà iniziale era di configurare un quartiere autonomo, sul modello della città storica. In concreto è andato configurandosi un rione monofunzionale, privo di mixitè sociale e con un’eccessiva concentrazione di utenti. Caratteristiche condivise con altre realtà simili non solo italiane. Il patrimonio edilizio esistente è, infatti, stato costruito in maggioranza in quegli anni per fronteggiare l’aumento della richiesta edilizia e sfruttando tecniche costruttive all’epoca sperimentali, che ad oggi necessitano di una riqualificazione e di un adeguamento alle nuove normative e alle dimensioni degli attuali nuclei familiari. Tali realtà periferiche di espansione, e così anche il Pilastro, hanno prodotto contesti periferici problematici da diversi punti di vista, che necessitano pertanto di una la rigenerazione urbana, in quanto caratterizzati dall’assenza di luoghi di aggregazione, di condivisione che promuovano lo scambio interculturale. Pertanto si è reso necessario individuare un modello di intervento, che consenta di riqualificare il patrimonio edilizio esistente senza decontestualizzare gli utenti (testimoni di dinamiche insediative difficili), ma anche di attivare un processo di rigenerazione urbana volto alla valorizzazione delle periferie.
L’intero procedimento consente, riqualificando e alienando parte del patrimonio edilizio esistente - sia necessità che motore dell’operazione - di riqualificare il nodo tensionale del rione anche se ad oggi percepito come retro (la spina centrale) e di costruire gli alloggi ponte necessari. Volendo quindi creare edifici flessibili che possano rispondere a diversi utilizzi, mutevoli nel tempo, temporanei non tanto per costruzione quanto per utilizzo, sono stati studiati tre modelli tipologici differenti (house on wheels, tiny house e assembled house) decretandone la necessaria commistione. Si sono configurati pertanto edifici complessi e spazi di mediazione, connettori urbani, che mettono in relazione spazi ed edifici individuando punti di riconoscimento e favorendo la creazione di un senso di appartenenza. Tali organismi edilizi, sfruttando come modulo base quello del container da 20 piedi, attraverso la giustapposizione di moduli abitativi (comprensivi di cellule attrezzate semiprefabbricate e mobilio ad assetto variabile per diverse categorie di utenti) e tecnici, rispondono ad esigenze differenti e mutevoli nel tempo. Le possibilità compositive sono quindi infinite. L’altro elemento che ha guidato il progetto è quello tecnico-impiantistico, in quanto trattandosi di edifici flessibili deve essere possibile modificarne la configurazione finale in maniera semplice ed efficiente. Il progetto proprio per la sua natura modulare è realizzabile e replicabile ovunque.